di Sergio Rinaldi Tufi
Ranuccio Bianchi Bandinelli, quando voleva dare un’idea delle lacune della bibliografia scientifica nel campo dei Beni Culturali, enunciava una situazione paradossale: “Manca un’edizione scientifica del Colosseo”. Sul monumento più famoso non c’era una “editio princeps” come quelle di una volta, con foto, disegni e misure delle strutture e dei loro dettagli, catalogo dei reperti e così via. Tanti anni dopo, una pubblicazione del genere manca ancora, ma indubbiamente si sono moltiplicati gli studi di ogni tipo, dai sotterranei alla sommità della cavea, dai precedenti (lo stagno di Nerone, la Meta sudans…) alla fortuna storica del monumento dopo la fine del mondo antico..
Ma accennare alla bibliografia, per il Colosseo, ormai è un lusso: i problemi sono di altro tipo, e pesanti. Quasi a sommarsi a una riforma dei Beni Culturali già si per sé assai discussa, è stato creato fra mille polemiche un Parco archeologico comprendente l’Anfiteatro stesso, il Foro Romano, il Palatino, la Domus Aurea, la Meta Sudans. Ora il Parco ha un nuovo direttore generale, anzi una direttrice, Alfonsina Russo. Si tratta, per la verità, di una studiosa di alto profilo, come pure di alto profilo era la commissione di sette persone che ha selezionato, fra 78 concorrenti, una terna da sottoporre alla scelta del ministro Franceschini. A voler essere ipercritici, si potrebbe osservare che fra quelle sette persone c’era un solo archeologo, Luca Giuliani, che poi, per sua stessa definizione, è più “archeologo da museo” (di primissimo piano, aggiungiamolo noi) che archeologo operante sul terreno: ma andiamo oltre.
Il problema non è la direttrice, ma il clima in cui è chiamata ad agire. Anche su questo clima ovviamente non sono mancati interventi autorevoli, come quelli di Vittorio Emiliani. Ma si possono anche osservare con stupore, nei comportamenti del Ministro, un atteggiamento a dir poco schizofrenico: da un lato, enunciazione quasi trionfalistica di grandi cifre, a partire dai visitatori del Colosseo stesso; dall’altro, grande fervore nello scompigliare tutto il campo dei musei e dei parchi, con l’introduzione di super-direttori di nuovo tipo. Insomma, ci si può interrogare su che cosa si chiede alla nuova dirigenza generale, visto che il Colosseo era già ben tutelato come monumento (anche se purtroppo insidiato all’esterno dal degrado che investe da tempo l’intera città), e che la “vecchia” dirigenza promuoveva mostre, ricerche, iniziative editoriali e restauri di ogni tipo, mentre fra 2016 e 2017 si saliva da 6,4 a 7 milioni di visitatori, giungendo (secondo dati magnificati dallo stesso Ministro) a incassi di 60 milioni di euro. La direttrice Rosella Rea, l’architetto Pietro Meogrossi e i loro collaboratori davano dunque il massimo nella tutela, nella ricerca e nella valorizzazione: che ci si attende di più, ora, da parte dei promotori del nuovo assetto?
Il sospetto, confermato dal generale atteggiamento degli ultimi governi (Franceschini è fra i molti ministri del governo Renzi che fanno parte anche del governo Gentiloni), è che si voglia perseguire un ulteriore quasi sfrenato incremento della cosiddetta valorizzazione, che in questo caso assumerebbe una deriva preoccupante: “inventare” più iniziative e più eventi, rastrellare più introiti.
La nuova direttrice, nelle sue prime interviste, su alcuni aspetti sembra, in realtà, più prudente: parla di un monumento da restituire ai romani, che non bisogna spaventare favorendo interminabili code di visitatori. Sembra quasi di capire che questi debbano essere in qualche modo contingentati, e quindi non si debbano a ogni costo creare grandi numeri sia per il botteghino, sia per manifestazioni create per veicolare ulteriori incassi. Anzi, la dottoressa Russo dice di più:”Non mi piace la parola incassi, per me viene prima di tutto il valore culturale e scientifico, io sono e resto un’archeologa”. Una presa di distanza, dunque, dal nuovo corso del Ministero e del Governo?
Non proprio, perché quando parla di un luogo da restituire alla gente per vedere spettacoli come accadeva all’epoca dei Flavi, alla domanda “Chi le piacerebbe portare al Colosseo?” risponde: “Sarebbe bellissimo che potessero suonare prima o poi Sting e Bono Vox, anche per il loro impegno umanitario e sociale”.
Bono o Sting a Roma: sarebbe un’idea, anche se l’impressione è che siano due grandi nomi scelti quasi a caso nel panorama internazionale. Se si trattasse di cantare là, si potrebbe anche puntare più sommessamente, perché no?, sul nostro Antonello Venditti, che almeno la “maestà del Colosseo” l’ha evocata in un suo brano famoso. Per quanto, poi, lo spazio antistante il monumento sia stato già usato per ospitare grandi folle, bisogna ammettere che è davvero scomodo, irregolare nella forma e “frammentato” dalla presenza della Meta Sudans e della base del Colosso. Ben più logico sarebbe usare, come in effetti spesso si fa, il Circo Massimo, poche centinaia di metri più in là: il più grande edificio per spettacoli di tutti i tempi, dove (al di là della conformazione generale della valle) i veri resti di strutture antiche si limitano alla curva sud-orientale (e quindi il rischio di danni è relativo), mentre l’effetto scenografico è assicurato dalle rovine del Palatino, lassù in alto… Cose arcinote? Inutile lezioncina? Forse, ma in qualche modo bisogna pur dire che la proposta su quell’uso dell’Anfiteatro sembra poco meditata, per non dire (a fronte alla situazione della città) un po’ frivola. A meno che…
A meno che l’accenno all’uso del Colosseo come luogo di spettacoli non serva a introdurre il tema della ricostruzione dell’arena. Ma, a parte il fatto che mai e poi mai concerti di quel genere potrebbero svolgersi dentro l’Anfiteatro (scomparse le gradinate, nessuna pedana sarebbe sufficiente), è mai possibile che questo progetto continui a riproporsi? Gettato là quasi come provocazione, anni fa, da un famoso archeologo, è stato inaspettatamente preso sul serio a livello ministeriale e ora sembra che sia pronto un finanziamento, ed è questo forse che induce Alfonsina Russo a parlarne.
Ma qualcuno ha fatto esattamente i conti? Non solo con quei 18 milioni di euro (tale l’importo annunciato, che certo non è poco, ma senza l’indicazione di un progetto di dettaglio non significa molto), ma con le difficoltà tecniche da affrontare: considerando che la nuova arena dovrebbe rischiosamente impiantarsi sui resti di quelle che erano le mirabili ma delicatissime strutture sotterranee dell’arena scomparsa e tenendo conto dell’abbondante circolazione di acque sotterranee, che talvolta rischiano di straripare (nel 2011 arrivarono al livello della cavea), quest’operazione richiederebbe un architetto che sia un po’ Apollodoro di Damasco,un po’ Michelangelo, un po’ Renzo Piano. Per fare che cosa, poi, visto che la capienza resterebbe comunque limitata? Sfilate di grandi stilisti per razzolare più fondi? Incontri di lotta greco-romana, come suggeriva un altro archeologo, anch’egli ben noto?
Alle domande su questi temi la direttrice avrebbe potuto elegantemente rispondere: “Valuteremo”, oppure “Vedremo di individuare le priorità”. Ha preferito invece prendere davvero in considerazione il progetto-arena, giungendo a dire che, se l’arena fosse già esistita, sarebbe stata questa la soluzione giusta per ospitare lo spettacolo pop-rock su Nerone che invece è andato in scena alcuni mesi fa sul Palatino. Su quella scena è rimasto molto poco, malgrado fosse stato “pompato” come grande evento anche da fonti ministeriali: e ora sembra davvero strano rammaricarsi che non sia stato possibile ospitarlo nell’Anfiteatro. Perché mai un flop su un’arena ricostruita dovrebbe essere preferibile a un flop su un celebre colle?